Una settimana da sfigato!

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    Fan sfrenato

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    Io e la mamma abitavamo in una villetta a mezz’ora circa dalla città.
    Non era stato facile trovare una casa che corrispondesse alle nostre esigenze: in campagna, senza vicini, tre stanze da letto, giardino davanti e dietro; una casa che fosse vecchia (doveva avere stile) ma, al tempo stesso, dotata di tutti i confort: un moderno impianto di riscaldamento era fondamentale, dato che entrambe non sopportavamo il freddo.
    Eravamo topi dopotutto. Non cercavamo una casa. Cercavamo un posto per nasconderci - pensavo.
    - Ti piace la nuova casa? - mi chiedeva la mamma.
    Provando a mostrare indifferenza gli dicevo - Carina -, poi proseguivo - Ma ci sono troppe finestre e le pareti bianche non mi piacciono -.
    - Ho capito - la mamma era delusa e un po’ mi dispiaceva, ma se volevo una casa migliore, dovevo comportarmi così…
    - Tutto sommato però è carina -, il suo volto si illuminava mentre sgranocchiava un po’ di formaggio dalla tavola degli umani, approfittando del fatto che non c’erano.
    In realtà la casa mi aveva colpito molto: era spaziosa, il bianco era il mio colore preferito e adoravo la luce, quindi quel numero di finestre andava più che bene.
    - Domani ricomincia scuola - avvisava cambiando argomento e lasciandosi sfuggire un sorrisetto.
    - Che schifo -, e qui finiva la nostra discussione… quindi iniziavo a perlustrare le varie stanze della casa.

    Il giorno dopo ritornavo a scuola, finito il week-end, con la stessa aria di sempre: un’anima errante.
    Tutti lì mi prendevano in giro: secondo loro ero strano, ma per me loro erano tutti uguali. Persino i professori non risparmiavano una battuta che era ripetuta dai compagni per un mese come minimo.
    Mentre mi buttavo a peso morto sulla sedia, la professoressa ci chiedeva se avevamo portato il pezzo di formaggio modellato, ossia il compito per casa.
    - Sì, professoressa - rispondevamo tutti in coro.
    Mentre la professoressa passava tra i banchi, dietro sentivo Clà e Fri sparlare di me, ma ormai evitavo di girarmi e rispondergli: era solamente tempo sprecato.
    - Clara, il tuo lavoro -, lentamente prendevo la pallina di pane da sotto il banco e ce la poggiavo, ritornando poi seduta a occhi chiusi.
    - Dormi? - diceva la professoressa con un sorriso furbetto poi continuava cantando - Disperato… disperato! -. Si riteneva simpatica e rideva da sola mentre cantava, poi tutti gli altri topi l’accompagnavano.
    Rimanevo impassibile e lei cantava sempre di più… poi finalmente smetteva: non era la battuta in sé che mi dava fastidio, ma il fatto che era un motivo in più per i compagni per prendermi per i fondelli.
    Tutto ciò andava avanti ogni giorno e persino il mio rapporto con la scuola e con i voti peggiorava sempre più.
    Mi vedevano diverso forse per il mio atteggiamento o perché non ero bello come loro, fatto sta che dovevo subire ogni giorno quelle prese in giro.
    La sera, come al solito, la mamma mi chiedeva come era andata la giornata ed io mi limitavo a risponderle: - Bene -. Come se fosse così.

    Era martedì, il secondo giorno della settimana, e ogni mattina andava a ripetersi come ogni volta. Oggi però accadeva qualcosa di speciale: un topo della mia classe mi aveva chiesto aiuto! Io amo aiutare gli altri e magari mi ricambierà il favore facendomi accettare dal suo gruppo di amici. A questo topo, Lenn, era capitato un atto di bullismo: veniva frequentemente minacciato e picchiato.
    Chiedeva aiuto a me sicuramente perché sapeva che non lo avrei mai detto a nessuno: sono un topo di poche parole.
    Come ogni pomeriggio, dopo aver svolto i compiti, passavo il mio tempo da solo girando per la città a pensare.
    Cosa potevo fare per aiutare Lenn? Sembrava veramente conciato male sia fisicamente che psicologicamente… il modo migliore era dirlo ai professori, ma non potevo: gli avevo promesso che non lo avrei mai fatto. Poi avevo paura quanto lui del loro giudizio: non provavano emozioni.
    Senza accorgermene stavo andando incontro a un umano, ma per fortuna lui non riusciva a vedermi al momento, quindi tornavo a gironzolare stando più attento.
    Tramontava il sole e preparavo la cartella per l'indomani, quando avrei dovuto affrontare una nuova giornata di stress. Quella sera andavo a dormire prima: ero stanco per la lunga passeggiata.
    Arrivata viva e vegeta al mercoledì, pensavo a scuola ad un metodo per aiutare Lenn, ma per quanto mi sforzavo non riuscivo a trovare un'adatta soluzione.
    Non mi rendevo conto di cosa mi stava intorno e, mentre riprendevo coscienza, trovavo tutti i compagni a fissarmi in silenzio, con la professoressa dietro di me, per poi scoppiare a ridere.
    - Possibile che non ti sia accorto di niente? - diceva Clà il pettegolo, che ad ogni parola non riusciva a non sputare tre litri di saliva.
    - Consegnami il diario, Clara - la professoressa sembrava godere pronunciando lentamente e scandendo bene ogni lettera.
    - Subito -, dicevo cercando di mostrare la solita indifferenza; però Lenn non rideva: forse perché non ne aveva voglia o forse perché lo stavo aiutando ad uscire da quella situazione, ma in ogni caso mi rincuorava molto.
    Dalla cattedra la professoressa diceva guardandomi fissa negli occhi - Ho finito di scrivere l'avviso alla tua famiglia, puoi riprendere il diario -.
    Subito dopo avermi consegnato il diario la professoressa riprendeva la lezione, ritornando sobria e riportando sul volto quel sorrisetto enigmatico.

    Il giorno dopo, giovedì, mentre facevo colazione mi veniva un'idea: perché non far smettere il bullo di picchiare la gente? Potevo trovare un modo per farlo sfogare e capire se aveva dei problemi, ma questo comportava un grande rischio per me... ma ormai tanto valeva provare!
    A scuola, alla ricreazione, chiedevo a Lenn:
    - Potresti dirmi chi è il bullo che ti tormenta? -
    - No. - mi rispondeva annoiato, così gli replicavo: - Ho un'idea! -
    - Non mi va Clara! Spiegami prima quest'idea -.
    Spiegata l'idea, cercavo di convincerlo e, dopo un po' di titubanza accettava finalmente e mi svelava il nome del topo: - E' Flex -.
    In effetti me lo aspettavo: Flex era un topo più grande che ripeteva la nostra classe, e faceva spesso lo spaccone, ma dovevo essere certa che fosse lui.
    Il pomeriggio andavo a casa di Flex senza preavviso.
    Mentre bussavo alla porticina della sua umile casa, guardavo intorno a me il folto prato di erbetta verde e il piccolo recinto dipinto di bianco. In questi momenti mi accorgevo che ero molto fortunato a possedere quella casa.
    Ecco Flex che apriva la porta e, dopo qualche secondo di stupore, mi diceva:
    - Cosa c'è? -
    - Nulla, volevo solo sapere se ti va di fare quattro tiri alla pallina di pane indurita - dicevo indicando un batuffolo di pane su cui avevo lavorato per mesi.
    - Andiamo. Chiamo dei topi amici - mi rispondeva, mostrando indifferenza come faccio di solito io di fronte ad alcune situazioni imbarazzanti: è strano che una topina giochi a "palla di pane" con dei maschi, ma dovevo provare.
    Qualche minuto dopo Flex mi appariva davanti dicendo: - Possiamo andare - per poi continuare dopo una pausa: - Saremo in nove -.
    La partita diventava sempre più disastrosa da quando avevamo iniziato: Flex e i suoi topi amici erano molto aggressivi e fallosi e non si fermavano nemmeno davanti ad una topina come me.
    La sera andavo a letto con i lividi alle zampette, pensando che avevo fallito il primo tentativo.

    Il venerdì mattina puntualmente andavo a scuola come se poco prima avessi scalato una montagna. Mentre Lenn mi chiedeva com'era andata la partita, gli mostravo le zampe: - Un disastro -.
    - Mi dispiace - mi rispondeva con uno sguardo che indicava pietà, dispiacere e senso di colpa.
    Il pomeriggio, sempre alla stessa ora del giorno precedente, bussavo alla porticina della casa di Flex che, stavolta meno stupito, mi richiedeva:
    - Che ci fai qui? -, la domanda era ovvia quindi gli mostravo una canna piena di buchi... - Oggi suoneremo insieme la canna -.
    Mi faceva entrare e, sempre più timorosa, seguivo lui che mi faceva strada verso camera sua.
    - I tuoi non ci sono? - gli chiedevo, pentendomi poi qualche secondo dopo.
    - No, non ci sono mai per me - rispondeva con voce ferma e sicura, quasi se ne vantava.
    Provavo a spiegargli come si facevano bene le note con la canna e a volte riusciva, dopo molto esercizio, ad eseguire brevi canzoncine.
    Tutto sembrava filare liscio, fino a quando, preso dalla collera, buttava la canna per terra e la rompeva con i denti.
    - Esci di qui - mi diceva con un'aria tranquilla, ma più non volevo andarmene più alzava la voce finché, presa dalla collera gridavo: - Sai che ti dico? Sto cercando di aiutarti e tu non sai apprezzare i nulla! Se proprio vuoi rimanere solo ti accontento, magari scrivi che ti passa! - e così dicendo gli buttavo una penna addosso, che schivava con grande facilità.
    La sera andavo a letto con la testa che scoppiava, pensando che avevo fallito il secondo ed ultimo tentativo: rinunciavo. Se essere accettati significava pagare quel prezzo allora no, meglio stare sola!

    Il sabato mattina, mentre scendevo dalla macchina, mi accorgevo che ero arrivata in largo anticipo a scuola e così mi andavo a sedere da sola su una panchina.
    Era tutto normale finché Flex non mi sbucava da dietro e mi metteva paura. - Sei di buon umore oggi? Hai imparato la lezione? - gli chiedevo con un cinismo che non avevo mai mostrato.
    - Sì, e indovina un po'? Il tuo consiglio mi ha fatto veramente bene! Sei grande! - diceva abbracciandomi, ma io mi scansavo chiedendogli: - Quale suggerimento? -.
    Sempre più sorridente mi diceva: - Ho scritto! -, in realtà io gli avevo suggerito di scrivere in un momento di rabbia, era una cosa detta a caso... ma aveva funzionato!
    - E' una poesia dal nome "Discordia", appena la perfezionerò te la farò leggere -
    Infatti poco dopo, a pranzo, Lenn correva a ringraziarmi: - Come hai fatto? Oggi è di buon umore e non mi ha picchiato! -
    Mentre gli raccontavo quello che realmente era accaduto, spalancava sempre più la bocca.
    Dopo gli ultimi ringraziamenti, mi lasciava da solo: - Devo mangiare con una persona, gliel' avevo promesso! -
    La sera andavo a dormire più felice che mai, capendo come a volte la fortuna accontenta tutti.

    Domenica mi riposavo da scuola e, preso coraggio, provavo a chiedere a Lenn di uscire insieme con il suo gruppo di amici.
    Arrivata a casa sua e bussato alla porticina gli chiedevo: - Ciao Lenn, ti va di uscire insieme stasera? -.
    Lui mi rispondeva: - Scusa, ma non posso: vado con Flex per riappacificarmi-.
    - V-va bene... ciao -, ero delusa perché Clà il giorno prima mi aveva detto che usciva la domenica sera con Flex, Lenn e il suo gruppo.

    Trenta anni dopo
    Ed eccomi qui, topini, che termino questa storia così. Spero abbiate appreso tutto ciò che vi volevo trasmettere: molte persone non sono sincere.
    Quindi badate a non fidarvi mai ciecamente di nessuno.
    Questa è la storia di me trent'anni fa, fatene tesoro.

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    Questa storia non descrive affatto la mia vita: fino a prova contraria i miei "compagni" non sono arrivati a questo livello di cretinaggine :lol:

    Spero di non aver fatto errori gravi e di aver consegnato un lavoro decente, comunque questo è un racconto che mi sta servendo per un contest, infatti l'incipit è tratto da un libro ^^
     
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0 replies since 31/1/2013, 22:43   99 views
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